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Cose che ognuno di noi sente

Ci sono cose che ognuno di noi sente, dentro, nel profondo. Cose che gli appartengono. Sono emozioni che cercano di farsi spazio, che cercano una via d’uscita, ma che spesso vengono trattenute per i motivi più svariati, respinte indietro da dove sono venute. E siamo noi che le respingiamo, siamo noi che non permettiamo a queste emozioni di esplodere. La verità è che nella nostra vita abbiamo imparato a impersonificare il nostro stesso male, ad essere la prigione di noi stessi. Per comodità, forse, per vergogna, a volte, o per paura.

Ho sempre avuto un certo tipo di legame con gli animali, un legame diverso. Qualcuno la chiama empatia, qualcuno sensibilità, non saprei, ma quello che so è che nel tempo questo legame è cresciuto sempre di più, andando nella direzione opposta di ciò che invece mi è accaduto con le persone. Forse è naturale, forse è del tutto prevedibile e normale allontanarsi dalle persone con il passare degli anni. Le persone ti deludono, ti feriscono, ti sfruttano, ti tradiscono. Le persone ti incattiviscono.

Gli animali no.

Una cosa su tutte apprezzo negli animali, così come nei bambini: la sincerità. Non c’è l’odio, non c’è l’arroganza, non c’è la menzogna. È un qualcosa di assolutamente coerente con la mia immagine di felicità.

Molto probabilmente è stata mia madre a trasmettermi questa passione, quasi sicuramente è stata lei. Non ho altri ricordi di persone che si rapportassero con gli animali in un modo speciale, se non quello di lei che, sin da piccola, ha amato gli animali con lo stesso legame diverso che vedo oggi in me. Da sempre.

Mia madre poi diventò biologa, io vegetariano.

Fu proprio il mio traguardo, quello, mi sentii completato e davvero in pace con tutto il regno animale, e con la natura più in generale, soltanto dopo quella scelta. Tutto vibrava di un’armonia nuova. Mi sentii finalmente coerente, come se dentro di me sapessi già da prima che qualcosa non si stava allineando completamente. Capire che non potevo amare gli animali e al tempo stesso mangiarli fu una rivelazione, come se fino a quel giorno camminassi ad occhi chiusi e poi d’un tratto li aprissi. Una connessione mente-cuore, non saprei bene come definirla.

Domenica sono andato a conoscere dal vivo la mia nuova piccoletta, la cucciola di Labrador che si unirà alla famiglia il 20 aprile. Mi sono fatto oltre 300km in moto soltanto per stare con lei una mezz’oretta, per farmi mordicchiare le dita con i suoi dentini aguzzi come spilli. Ognuno passa il suo tempo come vuole, no? Non sono uno che usa la domenica per recuperare dalla sbronza del sabato, diciamo. Per me la bella vita non è certo una vita di locali e alberghi di lusso, ma una vita di tempo libero, di affetti, di natura, una vita semplice.

Guardo davanti a me e non riesco a vedermi senza cani attorno. È una passione che si sta trasformando in un bisogno. Semplicemente ho imparato a sentirmi, a capirmi. Sono ritornato all’origine delle cose e sto lasciando che la mia vita prenda la direzione giusta. Non voglio sentirmi in trappola, ma libero di essere e di vivere la mia verità.

Non ci sono scuse per non essere felici, ma soltanto cose che ognuno di noi sente.

05. Come riuscire a fare tutto (la strategia Kaizen)

Quante volte ti è capitato di pensare di voler fare una cosa e poi di non iniziarla nemmeno per paura di non essere in grado di portarla a termine, o comunque di iniziarla ma di non riuscire a mantenerla costantemente nel tempo? Iscriverti in palestra, andare a correre, fare una dieta (da lunedì prossimo…), seguire un corso, preparare un esame e chi più ne ha più ne metta.

Il fatto che tu non sia riuscito in queste cose, che oltretutto erano e sono scelte libere e personali per le quali nessuno ti obbliga, ha una spiegazione scientifica.

E per fortuna anche una soluzione.

Avete presente la storia del fight-or-flight? È quella reazione fisiologica che si manifesta di fronte ad un evento che in qualche modo minaccia la nostra incolumità, la nostra sicurezza, la nostra sopravvivenza, la quale si presenta a noi in modo binario: attacco o fuga. C’è dietro tutta una cascata ormonale che agisce soprattutto tramite l’adrenalina e la noradrenalina e influenza nell’immediato il nostro sistema nervoso simpatico, il quale ci fa agire in un modo o nell’altro. Se ti addormenti in macchina e poi all’improvviso ti svegli con un muro a 3 metri da te, o giri tutto lo sterzo all’improvviso e tiri un’inchiodata di freno da spavento, o ti tappi la faccia e aspetti il botto. Non ci sono altre soluzioni. Tutta questa reazione inizia nell’amigdala, che è una ghiandola del nostro cervello, la quale gestisce le emozioni e soprattutto la paura.

Ora, tu mi dirai: ma che c’entra questo discorso con l’iscriversi in palestra o con il mettersi a dieta? Non è mica come trovarsi improvvisamente di fronte alla morte, non è mica come se un leone sbucasse all’improvviso dietro l’angolo del palazzo.

Invece in un certo senso lo è.

Le due cose sono ovviamente diverse, tutto un altro piano, eppure il meccanismo di reazione, seppur con tempistiche decisamente differenti, è il medesimo. Il cambiamento ci mette paura, e non solo quello. Pensare, ad esempio, alla grande fatica che faremmo in una palestra se ci iscrivessimo per un anno, oppure alla sofferenza di seguire per mesi e mesi una dieta restrittiva, ci mette paura. Anche l’idea del nostro possibile fallimento ci mette paura, e questo vale soprattutto per gli esami all’università, grande problema di tutti gli studenti.

Non ci concentriamo sulla cosa giusta, questo è il punto.

L’amigdala è lì, dentro di noi, e non possiamo toglierla o impedirle di agire per quella che è la sua natura evoluta di milioni di anni. Però possiamo imbrogliarla, in qualche modo. Più che un imbroglio è il porre l’attenzione in una maniera differente, impedendo così di avere paura, impedendo così che l’amigdala dia il via alla nostra reazione. Perché, c’è da dire, che l’amigdala non solo ti fa scattare sullo sterzo in un centesimo di secondo o ti fa mettere le mani davanti agli occhi, ma è anche quella che ti blocca alla sola idea di fare qualcosa. Con la conseguenza che respingiamo quell’idea dentro di noi e non iniziamo neppure. Niente iscrizione in palestra, niente dieta, esame rimandato, tanto c’è il prossimo appello, e via dicendo. È sempre lei, la nostra cara ghiandola.

Ora, non avercela con la tua amigdala, è grazie a lei se siamo arrivati fin qui e non ci siamo estinti prima, quindi tanto di cappello alla nostra cara ghiandola. Però, ecco, è giunto il momento di riuscire a decidere quando utilizzarla e quando no, o meglio, capire come fare per evitare che ci blocchi nelle cose che noi stessi avremmo voglia di fare.

E il modo c’è.

Può sembrare una cavolata, ma vi assicuro che non è una roba improvvisata che mi è venuta in mente stamattina, ma ci sono studi, libri, è una tecnica apparentemente banale (ed è proprio per questo che funziona, come tra poco ti spiegherò) che è stata utilizzata tanto nel settore industriale, per accrescere la produzione e quant’altro.

Abbiamo detto che l’amigdala ci blocca, abbiamo detto che ci blocca perché il cambiamento ci fa paura, perché il nostro pensiero è focalizzato sul cambiamento nel suo complesso (un anno di palestra, ommioddio!). È questo il punto, è questo che dobbiamo escludere dalla nostra mente. E come fare? Applicando una semplicissima strategia comportamentale che è chiamata Kaizen (dal giapponese KAI=cambiamento e ZEN=migliore).

Il principio della strategia Kaizen è uno, quello di applicare impercettibili atteggiamenti, impercettibili miglioramenti che traghetteranno pian piano (ed è fondamentale che sia un processo lento) la persona dal punto A al punto B. È ad oggi applicato in sanità, nella psicoterapia, nel coaching, oltre che, per motivi produttivi, nel business dei processi manufatturieri, per esempio. Si basa sull’annientamento dei concetti come innovazione, rivoluzione, conflittualità (tanto di moda nel nostro magnifico occidente), in favore di un rinnovamento eseguito a piccoli passi, i quali porteranno la persona a non avere paura, ad essere incoraggiata dai piccoli ma continui successi, ad ottenere molto di più avendo pensato a molto meno.

Come utilizzarla? È semplicissimo e voglio spiegarlo con un esempio reale ed esemplificativo.

Una signora ha i classici problemi derivanti dall’obesità, dovuti soprattutto alla sua sedentarietà, la quale la butta giù anche a livello morale, come prevedibile. Il medico e lo psicologo sanno benissimo che quella persona potrebbe risolvere i suoi problemi (per fortuna non ancora irreversibili) se solo smettesse di essere sedentaria, facesse sport, dimagrisse a tal punto da tornare ad essere una persona fisicamente attiva e normo-peso. Il medico dunque le prescrive una dieta molto restrittiva (la signora deve perdere parecchi chili), poi le ordina di fare almeno 30-40 minuti al giorno di Cyclette o Tapis Roulant, unito a qualche peso per stimolare anche la muscolatura, i mitocondri, eccetera eccetera. La signora torna a casa e si ingozza di gelato, sa che una cosa del genere non sarà mai capace di farla, quindi non fa proprio niente. Si butta sul divano, si guarda dieci episodi di Grey’s Anatomy e prende un altro paio di chili.

A questo punto che succede? Succede che la figlia riesce a convincerla ad andare da uno psicologo, perché forse intuisce che il discorso più che medico in quanto tale, probabilmente è nella testa, nei pensieri della madre. Qualcosa che la blocca, qualcosa che le impedisce di uscire dalla sua comfort-zone. Precisamente: l’amigdala.

Lo psicologo ci parla, cerca di capire, sente la storia di quello che le ha detto il medico e alla fine della seduta le domanda:

– Signora, ce la fa a fare una camminata sul posto per un solo minuto?

La signora è stupita. Che razza di domanda è? Chiunque riesce a camminare, perdipiù sul posto, per un minuto. Questo psicologo probabilmente mi ha preso per un’invalida. E intanto qualcosa inizia ad accendersi nella sua testa, anche se lei ancora non lo sa. Lo psicologo le dice che può continuare a mangiare quello che mangia (che a parte il gelato di quel giorno, non è che la signora si strafocasse di schifezze, più che altro era la sedentarietà ad ucciderla), ma per tutta la settimana, prima del prossimo incontro, ogni giorno, quando lei vorrà, dovrà fare un minuto di camminata sul posto davanti alla televisione, mentre guarda Grey’s Anatomy.

Per la signora questo non rappresenta alcun problema, anzi, è contenta che la sua “cura” sia così semplice, tant’è che si motiva e va a casa contenta. Pensa che farcela sia una cavolata e una serie di meccanismi si attivano in lei, ben diversi da quelli scaturiti una volta andata via dallo studio del medico precedente. Accende la televisione, mette Grey’s Anatomy e si mette a camminare un minuto su se stessa. Lo stesso fa il giorno dopo e quello dopo ancora. È soddisfatta, tant’è che al quarto giorno cammina sul posto due minuti, visto che le risulta molto facile. Il quinto e il sesto giorno lo fa per tre minuti. Poi torna dallo psicologo per la seconda seduta.

La contentezza e la soddisfazione dello psicologo sono ovviamente e giustamente alle stelle, sa di aver iniziato un percorso con un’ottima risposta da parte della paziente, migliore ancora di quanto si sarebbe aspettato. La signora è felice, interessatissima a conoscere quali altre cose così semplici potrebbe fare per migliorare. Lo psicologo, dopo averle chiesto quanta pasta la signora mangiasse a pranzo, le domanda:

– Signora, ce la fa, dopo aver pesato la sua pasta prima di cuocerla, a togliere una sola penna e a rimetterla nella busta? Mangiare una penna in meno (o uno spaghetto in meno, o una farfalla…) crede sia fattibile?

E la signora è ancora più contenta di prima, che straordinario psicologo è questo che non mi fa soffrire per niente. Così torna a casa, è l’ora di pranzo, pesa la sua pasta, ma prima di buttarla nell’acqua toglie una penna e la rimette nella busta. “Ti mangerò la prossima volta”, le dice divertita. Così si gode il suo pranzo, che di diverso dal solito ha solo una penna in meno. La signora non se ne accorge nemmeno, ma ha imparato a togliere, così come con la camminata sul posto ha imparato a fare. Al pomeriggio è talmente contenta che si mette davanti alla televisione e fa “addirittura” cinque minuti di camminata sul posto. L’indomani toglie due penne dal pranzo e fa sei minuti di camminata, il giorno dopo ancora tre penne e sette minuti.

La settimana successiva torna dallo psicologo con il record raggiunto di 10 minuti di camminata e 10 penne in meno nel suo piatto di pasta giornaliero.

Il resto della storia te lo evito, ma il finale è, come potrai ben capire, davvero scontato: la signora arriverà al punto che seguirà alla perfezione una dieta ben fatta, oltre a fare tutti i giorni almeno 30 minuti di Cyclette o di Tapis Roulant più qualche esercizio a corpo libero e con dei piccoli pesetti. Nel giro di un anno la signora è un’altra persona, più in forma persino della figlia che non aveva nessun problema e addirittura è lei a spiegare alla figlia cosa dovrebbe fare per mettersi in forma come lei.

Questa è la strategia Kaizen, la strategia dei piccoli passi. Qual è il tuo obiettivo, qual è il tuo muro insormontabile, cosa ti mette paura, cosa pensi di non riuscire mai a fare? Inizia a spacchettare il tutto, riducilo in mille pezzi e poi inizia dal primo. Solo dal primo, non concentrarti sull’obiettivo nel suo complesso. Trova mille obiettivi e raggiungine uno alla volta.

Vuoi andare a correre tutti i giorni, ma col cavolo che ce la fai? Inizia camminando un minuto nel salotto prima di andare a lavoro, anticipa la sveglia di un solo minuto, dalle 7.30 alle 7.29.

Abituati a fare, abituati a non avere paura, abituati ad essere un vincente.

E l’amigdala muta.