Essere il numero 1 (seconda parte)

Concludevo l’ultimo articolo introducendo il concetto di perfezione, di quanto questa possa essere da un lato positiva e dall’altro un vero e proprio limite. O, almeno, di quanto sia stata così per me.

Di buono c’è il fatto che sicuramente, cercando di tendere alla perfezione, saremo portati a fare le cose fatte bene, ad informarci a fondo prima di agire, a ricercare informazioni sugli argomenti che ci interessano e che ci coinvolgono attivamente nelle cose di tutti i giorni, ad approfondire, ad avere sempre un occhio più concentrato sui possibili errori, così da poterli evitare. Tutto ciò si traduce in risultati migliori. E risultati migliori portano a quella soddisfazione che ci renderà motivati, quella soddisfazione che ci farà perseverare nei nostri intenti, mantenendo sempre una pretesa alta, la quale, di conseguenza, continuerà a portare quei risultati sperati.

Però. C’è un però. E qui arriva la parte in cui essere dei perfezionisti può essere un vero e proprio limite, che è poi quella che più mi interessa.

Qualcuno conosce la frase “Done is better than perfect”? Credo che, nel mondo dei citabili, sia attribuibile ad un discorso di Mark Zuckerberg, ma potrei anche sbagliarmi. Ad ogni modo: fatto è meglio che perfetto. In questa frase si racchiude tutto il senso di quello che intendo quando dico che la ricerca della perfezione, ammesso che questa esista (e non è così), può rappresentare un vero e proprio limite. Non è una cosa alla quale magari si pensi consciamente, ma fare le cose con lo spirito di doverle fare necessariamente in maniera perfetta è un vero e proprio blocco. Ci può far decidere, cioè, a livello inconscio, di non iniziare nemmeno quella tale attività. Oppure può frenarci, bloccarci, indurci a rinunciare quando siamo “a metà dell’opera”.

Quello che il nostro cervello mette al primo posto, quando accade quello che ho descritto, non è più il percorso, non è più il nostro “bello” nel fare qualcosa che ci piace e che ci fa stare bene, ma è soltanto la destinazione, il risultato. E quindi non sbagliamo una sola volta, ma almeno tre.

In primo luogo sbagliamo ad agire solo in virtù di un possibile risultato futuro, perché non possiamo assolutamente sapere come sarà quel risultato se prima non ci mettiamo lì a fare, sbagliare, correggere, andare avanti. Aggiungo anche che, come ormai è risaputo da tutti coloro i quali abbiano studiato o anche solo letto uno o più libri che parlano di psicologia personale, meditazione, felicità e simili, la nostra mente dovrebbe essere focalizzata il più possibile sul momento presente, il qui e ora, cioè l’unico momento che ci appartenga davvero e che può farci vivere la nostra vita a pieno.

In secondo luogo sbagliamo perché la ricerca di una perfezione, o comunque di un ottimo risultato, passa necessariamente dall’esercizio, dall’esperienza. Nessuno nasce fenomeno. Abbiamo delle predisposizioni genetiche, quello sì, ma sono soltanto delle predisposizioni: da allenare, migliorare, sfruttare. Non sono dei risultati a prescindere. Vogliamo essere bravi in qualcosa? Dobbiamo metterci lì e studiare, imparare, esercitarci. Non raggiungeremo mai la destinazione se non iniziamo a camminare, il teletrasporto non è di questo mondo.

Questo ci porta verso il terzo errore: la stasi. Più tempo perderemo a decidere se iniziare o meno a camminare verso la nostra destinazione e più il suo raggiungimento sarà posticipato. Anche volendo pensare al futuro e non al presente (sbagliato!), sbaglieremmo comunque a non iniziare subito con il nostro percorso. L’indecisione non farebbe altro che allontanare il nostro futuro da noi e non avrebbe dunque senso in nessuno dei casi.

Non è facile, lo so benissimo. Capirlo è facilissimo, quello sì, ma farlo è di una difficoltà impressionante, se siamo cresciuti con questa “ossessione da numeri 1”. L’ho vissuto e lo vivo sulla mia pelle, quindi capisco benissimo chiunque si trovasse nelle mie stesse condizioni. Ragioni, pensi, il tuo cervello fa mille congetture, ed intanto il tempo passa e le altre persone agiscono, fanno. Provi ad impostare una mezza cosa, non ne sei del tutto convinto, non ti sembra così perfetta come vorresti e molli subito. Poi a distanza di tempo rifai qualcosa e rimolli ancora. Intanto gli altri andranno avanti. Non faranno cose perfette, ma le faranno, e la loro abilità aumenterà di pari passo con il tempo che dedicheranno a quell’attività. E sai cosa succederà alla fine? Alla fine succederà che ti avranno superato, anche se magari sono partite anni luce dietro di te in quanto a potenzialità, e tu ti sentirai un coglione.

Un coglione ad aver sprecato il tuo potenziale.

Un coglione ad aver sprecato il tuo tempo.

Un coglione a pensare a quante cose avresti potuto fare se solo avessi iniziato subito.

Un coglione a pensare a quello che saresti adesso se avessi avuto anni di esperienza addosso.

Un coglione a vivere la vita che vivi, sapendo che avresti potuto vivere la vita che avevi sognato.

La bella notizia? Non c’è. C’è però una specie di via d’uscita, e si chiama azione. Il tuo potenziale sarà un po’ arrugginito e invecchiato dalla vita, ma è sempre lì che ti aspetta.

Hai sbagliato per anni, amico mio, non sbagliare ancora.

Essere il numero 1 (prima parte)

Sono sempre stato un tipo competitivo, fin da quando ero bambino.

Non so chi possa avermi messo in testa questa indole, considerando che i miei genitori potrebbero considerarsi l’esatto contrario della competitività. E non so nemmeno se questa tendenza sia venuta fuori per via traverse, magari a causa del carattere timido e introverso che avevo da piccolo, il quale potrebbe avermi spinto verso la ricerca di un’affermazione che fosse oggettivata da risultati tangibili, più che dai miei coetanei, superando proprio loro in qualunque cosa. Per farla breve: cercare di essere il migliore per essere accettato e apprezzato.

Non saprei dirlo, del resto non sono uno psicologo e nemmeno sono stato mai a ragionarci più di tanto, ad essere sinceri. Il bello però è che ci riuscivo davvero, a superare gli altri. Ho vissuto diversi anni, fino all’età di circa 13-14 anni a fare tutto meglio degli altri. A scuola il mio rendimento era il migliore dell’Istituto, consegnavo compiti di matematica perfetti dopo nemmeno un quarto d’ora, leggevo e scrivevo meglio degli altri, disegnavo meglio degli altri, a pallavolo giocavo meglio degli altri, anche di quelli che non conoscevo, vincevo tornei e medaglie con una facilità imbarazzante, in piscina ero il migliore, fuori correvo più veloce di chiunque altro, sia a piedi che in bici, giocavo a scacchi e battevo tutti. Insomma, nelle cose in cui mi applicavo un minimo, fisiche o mentali che fossero, non c’era storia con nessuno. E la cosa più impressionante era il fatto che non facevo il minimo sforzo per riuscirci. Semplicemente, le facevo e mi venivano meglio.

Tutto questo, considerando soprattutto l’età in cui si è sviluppato, deve aver certamente contribuito a costruire in me una mentalità che da una parte posso considerare meravigliosa e che sono contentissimo di avere (sono conscio delle mie capacità, non soffro la competizione, anzi, mi stimola a far meglio, non ho nessun tipo di ansia nell’affrontare persone o situazioni nuove, perché so che quello che farò lo farò bene, e via dicendo), ma che al tempo stesso potrei definire anche come problematica per tutti quegli aspetti legati al carattere e alle reazioni che ho quando mi trovo in situazioni che non mi piacciono, situazioni o persone che non sono “perfette” o che non fanno le cose “perfette” come vorrei. O anche quando, in un determinato contesto, non risulto essere io stesso perfetto come vorrei.

Negli ultimi anni, mentalmente, sto lavorando parecchio per migliorare questo lato negativo del mio carattere, e sono molto contento dei risultati che questo tipo di lavoro pseudo-meditativo mi sta portando. Il concetto di perfezione, in particolar modo, e la sua naturale evoluzione nella mia vita, è qualcosa a cui sono molto legato, nel bene e nel male. Ne riconosco la nascita, lo sviluppo e le sue implicazioni. Riconosco i problemi e le gioie che mi ha portato.

È una parte di me, che è cresciuta e che si è trasformata con me.

Ed è per questo, proprio per questo, che ho deciso di parlarne a parte nel prossimo articolo.

I nostri errori

Spesso ci accorgiamo dei nostri errori solo quando ci siamo finiti ormai completamente dentro. È come se dovessimo sbatterci per forza la testa, sentire quel colpo improvviso che ci fa risvegliare e che ci fa capire in un istante tutto quanto. A quel punto, e solo a quel punto, iniziamo a vederci chiaro, tutto ci appare limpido e ovvio come se fino ad un attimo prima fossimo stati ciechi, o forse sarebbe meglio dire accecati, schermati da un micromondo di preconcetti, abitudini che non ci hanno dato via di scampo. Ma il bello di questa vita è che una via di scampo esiste sempre e sempre esisterà, e, come dico sempre, dipende solo da noi, perché è proprio così.

Nonostante spesso dobbiamo sbatterci la testa per accorgercene o per capire quale sia l’uscita d’emergenza del nostro labirinto individuale, dovremmo sempre tenere a mente che tutto quello che vediamo o percepiamo oggi, ora, in questo preciso istante, non è tutto quello che esiste e che potremmo vedere o percepire tra un minuto, domani o tra un anno. Noi non siamo la verità assoluta del mondo e non siamo immodificabili alla vita e agli eventi, anzi. E questo è assolutamente un bene, perché altrimenti la nostra stessa vita non potrebbe mai coglierci di sorpresa e il nostro esistere sarebbe di una noia tremenda e mortale, fatto solo di emozioni calcolate, studiate, conosciute.

Non non siamo le stesse persone per tutta la vita, ma cambiamo continuamente. Non siamo le stesse persone nemmeno da un giorno a quello successivo. Penso ad un materiale plastico modellabile con la semplice pressione delle mani, come il pongo che usavamo da bambini. Anche noi ci trasformiamo e assumiamo forme diverse, facciamo azioni diverse, abbiamo pensieri diversi. A seconda delle situazioni, o anche semplicemente con il passare del tempo, con quella miriade di situazioni e piccole esperienze che facciamo ogni giorno.

È un bene, è assolutamente un bene.

L’unico dovere che abbiamo, verso noi stessi più che verso tutto il resto del mondo, è cercare sempre di migliorare. Fare passi avanti e mai indietro, a meno che un passo indietro non serva per farne poi due avanti.

Cercare di diventare persone migliori, persone più felici e più consapevoli.

E il mondo migliorerà in egual misura.

L’approccio

L’approccio è tutto. L’ho capito negli ultimi anni e l’ho capito bene. Mi riferisco a quell’approccio inteso come modo in cui affrontiamo una questione, un’attività, un problema. È mentale e quindi dipende esclusivamente da noi. Ed è tutto. Ma non è la mentalità, quella è un’altra cosa. Direi piuttosto che l’approccio è un derivato della mentalità, è il suo prodotto finito.

Due persone possono fare la stessa cosa, ma per una delle due quella cosa può risultare emozionante e bellissima, per l’altra di una noia mortale. Ma questo è anche semplice da capire. Quello che invece è più complesso, ma decisamente più importante, è che la stessa persona può fare la stessa attività e trovarla emozionante e bellissima, oppure di una noia mortale, a seconda soltanto del tipo di approccio diverso con il quale quell’attività è stata affrontata. Sentimenti come la rabbia, l’amarezza, l’abbandono, l’angoscia, l’ansia, la vergogna, il rimorso, la malinconia, e chi più ne ha più ne metta, sono sentimenti del tutto soggettivi. Questo ci deve far capire che la nostra vita, intesa come l’insieme di tutte le cose che facciamo, non è di per sé né bella né brutta. Non c’è un valore oggettivo, una classificazione delle attività dell’uomo che stabilisce quanto bella o brutta sia una vita, ma c’è invece la nostra soggettività a farci vivere una vita meravigliosa o una vita d’inferno a seconda dell’approccio che abbiamo alla vita stessa e agli elementi che la compongono.

Purtroppo la maggior parte delle persone tende per natura ad etichettare, ad esprimere giudizi che non le competono, solo per cercare di dare un senso alle cose, per riuscire ad avere sotto controllo situazioni che sono assolutamente fuori dalla loro natura. Tradotto in parole povere: le persone non hanno né l’intelligenza né la voglia di sforzarsi abbastanza per cercare di capire fino in fondo ciò che le circonda. È apparentemente molto più semplice giudicare e tagliare corto, si fa molta meno fatica.

Questo però è vero solo se abbiamo la vista limitata, se non riusciamo a vedere al di là di noi stessi. Pensiamo che sia così perché l’unica cosa che vediamo è il nostro mondo, con le nostre etichette e i nostri schemi mentali. Ma chi ha il coraggio di riflettere, di farsi qualche domanda in più, di aprire la propria mente e lasciarla correre, sarà già talmente oltre da vedere tutto ciò come un qualcosa di ridicolo, di stupido. La persona che riesce a cancellare dalla mente tutti gli schemi acquisiti nel tempo vivendo la nostra società nel corso degli anni sarà libera, ma libera davvero, e sarà fortissima, perché niente sarà in grado di scalfirla, dato che niente ha un significato oggettivo precostituito, ma ogni cosa è il frutto del nostro approccio. E qui si ritorna quindi a quanto ho detto all’inizio, cioè che l’approccio è tutto. Lo ripeto, lo sottolineo. È tutto in quanto tutto è soggettivo, ogni cosa lo è. Ed è importantissimo, una volta capito questo, cercare di avere la mentalità giusta per avere l’approccio giusto. In questo modo il mondo potrà essere bellissimo, ogni esperienza che facciamo potrà essere bellissima, ogni elemento di questa Terra potrà essere bellissimo. E per fortuna tutto ciò dipende solo ed esclusivamente da noi. Il che significa che, indipendentemente da qualunque cosa, la nostra vita potrà essere bellissima perché noi abbiamo scelto che così dovrà essere.

Questa è per me l’immortalità.

Strada di sole

Oggi pomeriggio ero fuori in giardino con i miei due cani, Nino e Carol. C’era un gran bel sole e quella tipica aria primaverile che si assapora da queste parti nel periodo che va da marzo a maggio.

Passeggiavo, canticchiavo, parlavo e scherzavo con i quadrupedi, quando ho ripensato a questo blog, a questo diario virtuale che cominciai a scrivere alla fine del 2018 e che accantonai da una parte verso la metà dell’anno successivo. Non so perché mentre passeggiavo, canticchiavo, parlavo e scherzavo con i miei cani mi ha attraversato la mente proprio questo pensiero, ma credo che il tutto derivi dal fatto che sono a casa dalla metà di marzo per via della quarantena e che sto lavorando per lo Studio soltanto mezza giornata, avendo così di conseguenza molte ore in più a disposizione per curare i miei interessi e fare tutti quei lavori che non ho mai potuto fare fino all’inizio di questo ritiro forzato.

Ed è così che in questo mese ho potuto finalmente dare una marcia in più ai lavori di ristrutturazione e di trasloco per la casa dei miei, i quali alla fine si sono potuti staccare per andare a viverci, lasciandomi finalmente libero di iniziare a vivere a pieno la mia casa con la mia compagna, i due cani, i due gatti e tutte le mie abitudini. Ma nel tempo libero ho potuto anche riflettere molto, un po’ come feci alla fine del 2018 quando iniziai a scrivere questo diario, ho potuto riprendere in mano e osservare con più attenzione quei pensieri felici che in realtà non mi hanno mai abbandonato, ma che nella vita frenetica di tutti i giorni restano spesso in secondo piano, un po’ sfocati sullo sfondo. Parlo di libertà, felicità, passioni. Ho potuto rimettere al centro della mia vita le cose che ritengo essere davvero importanti e godere così del mio tempo in modo molto più intenso, bello e soddisfacente.

Ma non mi sono limitato soltanto a pensare a queste cose come una sorta di meditazione interiore, voglio dire, ho cercato di leggere libri, guardare video, parlare con amici. Ho approfondito alcuni argomenti, altri li ho iniziati a studiare da zero, ho cercato stimoli ed idee che facessero partire in me la scintilla per altri stimoli ed altre idee, come una reazione a catena. Non voglio soffermarmi sul cosa o sul quanto, non è importante per quello che sto dicendo (scriverò magari altri articoli tra qualche giorno), ma voglio invece portare alla luce quanto bene faccia focalizzare o rifocalizzare, come in questo caso, la mente su quella che è la propria strada. Ho la sensazione che sia un po’ come scappare, come correre via da qualcosa senza sapere esattamente dove si sta andando e nemmeno il motivo per cui si sta correndo, e ritrovare poi all’improvviso alcuni elementi che conosciamo, elementi che fanno tornare in noi la calma, che ci fanno sentire al sicuro, che ci fanno capire di essere di nuovo sulla strada giusta, sulla nostra strada,  e che possiamo quindi rallentare, soffermarci sui dettagli, respirare.

Tutto questo può sembrare un discorso un po’ astratto, metaforico, lo capisco bene, ma in realtà avviene davvero, anche se solo nella nostra mente. La vita potrebbe per assurdo rimanere la stessa di prima (anche se spesso tutte queste idee danno la spinta ed il coraggio giusti per dare il via a grossi cambiamenti), ma il modo in cui questa vita viene vissuta sarà del tutto diverso e inciderà in maniera molto positiva sulla nostra esistenza e sulla nostra percezione di essa, che è poi un modo diverso per dire la stessa cosa.

Pensare, riflettere, entusiasmarsi delle piccole cose, cercare la propria strada di sole in mezzo al caos e alle nubi della vita moderna.

Significa alzare la qualità.

Il punto della situazione

È giusto fare il punto della situazione, ogni tanto. Serve a rimettere in ordine le cose, a ridarle il giusto senso, il giusto posto nel mondo.

La mia ultima pagina di diario, così come le Guide per la Felicità, risalgono esattamente a due mesi fa, l’attività social – per quanto non sia io un “fissato” ma apprezzi comunque la condivisione nelle sue varie forme – calata drasticamente, il libro che stavo leggendo allora è ad oggi ancora sul mio comodino (ho ripreso la lettura proprio un paio di giorni fa), le serie TV procedono lentamente e via dicendo. Questo per dire che le cose più facili da conteggiare, quelle sulle quali stavo dedicando gran parte del mio tempo libero, non hanno avuto più, in quest’ultimo periodo, l’attenzione che meritavano, la dedizione che meritavano.

Sono stati due mesi davvero intensi e quello che ho capito è stato che quando ci inoltriamo molto su quel delicato sentiero che porta verso la felicità, e che è esso stesso felicità, non possiamo calcolare bene le distanze, i dettagli. È un viaggio avventura, non ci sono prenotazioni da fare o itinerari da seguire, ma si va solo e soltanto verso una direzione, che è poi una direzione non tangibile fisicamente, non visibile, pertanto non inquadrabile a priori. E la parte più bella di questo viaggio è il farsi trasportare, aprire la vela e abbandonarsi ai venti interiori.

Lo dico io che sono uno assolutamente schematico e organizzato, io che ritengo che progettare le proprie attività (qualunque attività) per filo e per segno ci renda molto più produttivi e di conseguenza soddisfatti e di conseguenza felici.

A volte però le priorità cambiano in corso d’opera, oppure arriva una ventata di idee, o ci succede qualcosa che ci fa scegliere un percorso piuttosto che un altro, che ci obbliga talvolta ad un percorso piuttosto che a un altro, o chissà che cosa. Possiamo ritrovarci velocemente lontani da alcuni di quelli che erano i nostri punti fermi fino a poco prima e più vicini a nuovi mondi, nuove esperienze. Tutto fa parte dell’imprevedibilità e della grande bellezza della vita, e a noi resta soltanto la possibilità di seguire il flusso, che comunque deve essere il nostro flusso, la nostra direzione.

In questi due mesi mi sono massacrato di lavoro e i numeri sono assolutamente dalla mia parte. C’è grande soddisfazione da parte mia, perché vedo che quel progetto iniziato a dicembre sta dando tutti i suoi frutti, il volto dello Studio sta cambiando drasticamente in meglio, ma ovviamente c’è anche grande stanchezza, com’è normale che sia. E questa ci fa magari vacillare un po’ al pensiero di fare altre attività mentalmente impegnative, di stare altre ore al computer, dopo tutte quelle già passate in ufficio. Aggiungiamo che poco più di due mesi fa è arrivata Carol, la seconda cucciola di Labrador (altra mia grande passione) e che ovviamente, essendo lei una cucciola, necessitava e necessita di tante attenzioni (e necessitano sempre di tante attenzioni!), che tre settimane fa abbiamo aggiunto alla famiglia anche due gattini trovatelli abbandonati a venti giorni d’età (il maschietto purtroppo non ce l’ha fatta) e loro sì che necessitavano di tante attenzioni (sveglie notturne per la pappa ogni 2-3 ore, cure di ogni sorta, affetto, eccetera eccetera). Ma aggiungiamo pure che da quasi un mese ho ripreso ad allenarmi alle 6.30 del mattino 6 giorni su 7, con tanto di dieta drastica e ipocalorica per rimettermi in forma, perché ne sentivo e ne sento davvero l’esigenza, che stiamo ristrutturando casa e che quando torno quindi a casa la sera, stanco morto, magari c’è anche da dare una mano a mio padre per qualcosa che non è riuscito a fare da solo, e poi diverse altre cose.

Possono sembrare giustificazioni e infatti lo sono davvero.

Un periodo bello pieno, di tante cose fatte e poche ore dormite, un periodo molto stancante e con un caldo che ultimamente ammazza, ma ricco di gioie, di affetti e di soddisfazioni. Non so se adesso, andando in direzione di luglio e agosto e soprattutto delle ferie che arriveranno tra poco più di un mese, possa io avere più tempo e più energie da dedicare a tutte quelle passioni lasciate un po’ indietro in questi ultimi due mesi, ma staremo a vedere, anzi, starò a vedere.

Tutto il resto è lavoro, faccende, idee, progetti e sogni

In quest’ultimo mese non sono riuscito a ritagliarmi del tempo per la scrittura e credo che ancora per un po’ sarà così. Tra il lavoro, dove a volte sono stato costretto ad entrare alle 7, lo svegliarsi presto in generale, le festività, Angela che è andata in Sardegna, l’infortunio a Nino e l’inizio dei lavori a casa, i miei ritmi si sono un po’ scombussolati e la stanchezza aumentata. E poi è arrivata una nuova piccoletta pelosa di due mesi (quindi due viaggi a Grosseto e tutto il resto) che piacevolmente (piacere suo e anche mio, ovviamente) si ruba tutto il mio tempo libero, porzioni di notte comprese.

Sono più stanco, questo è ovvio, ma non ho proprio il tempo materiale, in questo momento, per stare chissà quanto davanti al computer. Così come non sto riuscendo nemmeno a fare sport, anche se voglio ricominciare a breve. Se avessi un portatile sarebbe già ben diverso, per la scrittura intendo, potrei starmene giù sul divano (dove tra l’altro ho dormito alcune notti) quando i pelosi dormono e battere qualcosa, che invece non posso fare nello studio al piano di sopra perché la piccoletta inizierebbe a piangere. Di portarla su con me e lasciarla a giro per la stanza non è ancora il caso, distruggerebbe tutto e dovrei alzarmi ogni trenta secondi.

Ma comunque non ho un portatile. E non credo nemmeno che lo comprerò, visto che non ho alcuna esigenza davvero così importante. Quello che faccio infatti è guardarmi serie tv come non ho mai fatto prima, spaziando su vari generi, cosa che, devo ammettere, mi piace anche molto perché mi rilassa e perché le serie tv sono comunque a loro modo maestre di scrittura, se uno le guarda, come me, con occhio sempre critico. Una scrittura diversa, per immagini, ridotta, ma pur sempre una scrittura efficace e molto più narrativa rispetto ai singoli film.

Così potrei dire che alterno fasi di vivacissimo gioco, fasi di stanchezza assoluta e fasi di divano terapeutico, una passeggiata o due nel weekend con Nino (Carol non è ancora pronta, ovviamente) e poco altro.

Tutto il resto è lavoro, faccende, idee, progetti e sogni.

La vita tutto l’anno

È soprattutto quando sto a casa, durante i weekend sì, ma ancor di più durante le festività e le ferie (se durano più di un weekend), che mi accorgo dell’enorme differenza che c’è tra il tempo trascorso con i propri affetti, le proprie passioni e il tempo invece che passa ignorante come una furia nei giorni di lavoro.

Non che non lo sappia già o che non lo riconosca anche in altri momenti, ma è proprio quando sono lì a vivere davvero, che niente è più un’urgenza, che non c’è l’ansia di finire subito il tempo di quelle piccole (troppo piccole) finestre temporali che ci possiamo concedere, che la mente si rilassa, si libera, si proietta verso un mondo di se e di ma.

È un problema di allineamento, di mettere la propria vita in sintonia con la propria mente, quella non pensante e non pesante, quella istintiva, leggera, naturale.

Durante le vacanze, anche se per un tempo comunque limitato, avviene proprio questo. Non si pensa più a tutti i problemi del lavoro, non si pensa più nemmeno al problema stesso del dover andare a lavoro, e la mente prende aria, respira. È come se vivessimo in apnea per tutto il tempo e poi riuscissimo finalmente a riemergere. Si possono fare passeggiate senza l’orologio al polso, giocare con i propri bambini o con i propri cani, leggere libri, stare insieme agli amici, ai genitori, ai nonni (per i fortunati che ce li hanno ancora), ci si può rilassare al sole, ma anche all’ombra, godendo di ogni piccolo rumore, profumo, filo di vento che ci accarezza la pelle.

Ci accorgiamo di essere in sintonia. Cambiano in noi le percezioni, le sensazioni. Tutto si amplifica, tutto sembra essere ok.

In quei momenti, e solo in quei momenti, riesco a sentirmi davvero vivo, a percepire in pieno la bellezza della vita, del tempo che non è più un nemico. E ogni volta che questo avviene è un passo in più verso quella ricerca di costruire attorno a me uno stile di vita che sia tutto mio, completamente allineato, appunto. Un passo in più verso le grandi decisioni, verso le grandi scommesse, che poi sono il vero pepe della nostra esistenza.

Una goccia in più nel vaso della felicità.

Per una vita che non sia di pochi giorni.

Per una vita che sia tutto l’anno.

Soltanto una buca da evitare

Devo ammetterlo, mi sono un po’ perso in quest’ultimo mese. Mi sono allontanato di qualche chilometro dal mio obiettivo di felicità. Vecchie ansie e vecchi stress si sono gettati davanti a me sbarrandomi di nuovo la strada, dirottandomi su percorsi che io oggi definisco alternativi, ma che sono la normalità della maggior parte delle persone che non aprono davvero gli occhi sulla propria vita.

Il lavoro, la bestia nera di questa nostra bella società produttiva. Sempre lui.

Però, ecco, la mentalità vincente è la mentalità di chi, se inciampa (perché tutti noi inciampiamo e inciamperemo sempre), se ne accorge e sa come dare di nuovo inizio al suo cammino. Qui sta la differenza. Aver cominciato questo mio percorso mesi fa è quello che oggi mi fa rendere conto di ciò che mi sta succedendo (nel bene e nel male) e che mi permette di auto-gestirmi per ritornare in carreggiata. È una differenza abissale, sostanziale. E tutto parte sempre da quel concetto di consapevolezza che professo tanto, soprattutto nelle mie Guide per la Felicità.

Senza consapevolezza siamo trascinati, letteralmente, dalla corrente, dal flusso della massa, dalla società, dagli eventi, dagli altri. Con la consapevolezza e con un obiettivo che è il più bello e giusto del mondo, invece, niente e nessuno potrà farlo, se non, appunto, quando inciamperai. Quando non sei più ben piantato con i piedi per terra, allora gli altri possono tirarti dalla loro parte, farti vacillare, farti perdere la via. Ma se hai consapevolezza, dura un attimo. Rimetterai i piedi per terra e ripartirai, più forte di prima perché arricchito da un’esperienza di allontanamento che saprai meglio come evitare in futuro. Saprai come riconoscerne i segni ed evitare che si ripeta.

E questo è il mio momento, per riprendermi tutta la serenità di cui ho bisogno, per rimettere i piedi per terra e ripartire. Niente e nessuno deve interferire con la mia vita. Può succedere, a tratti, e capiterà ancora, ma sarà soltanto una buca da evitare passando di lato, per rimettersi poi subito diritti verso la meta.

A testa alta.

06. Come eliminare i conflitti (seconda parte)

Già, che cosa è giusto? E che cosa è sbagliato?

Ho introdotto questo discorso nell’articolo precedente parlando di conflitti esteriori e conflitti interiori. A parte quello già detto sull’argomento, è inevitabile prima o poi scontrarsi con un concetto importantissimo, oserei dire fondamentale per quanto riguarda l’accettazione del mondo e di quello che succede su di esso.

Il bene e il male è qualcosa che ti viene insegnato fin da quando sei un bambino, i tuoi genitori, i tuoi nonni, il tuo fratello maggiore, i tuoi zii, il catechista, l’allenatore della squadra dove giochi, gli insegnanti. Ognuno, nel suo ramo e purtroppo non solo in quello, ti dice cosa devi e non devi fare, cosa è il bene e cosa il male (e magari anche chi), quello che è giusto, appunto, e quello che invece è sbagliato. Ora, niente di male in tutto questo, se gli insegnamenti sono positivi, fa parte semplicemente del processo con cui tramandiamo l’etica di un popolo e la sua cultura alle generazioni successive.

Ma il punto non è affatto questo.

Ci sono genitori che potrebbero insegnare ai loro figli a rubare, altri che potrebbero insegnare che le diversità vadano represse, soppresse, altri ancora che le donne vadano punite quando hanno determinati comportamenti (che determinano gli uomini), che vadano puniti tutti coloro i quali abbiano un credo diverso, e tante altre oscenità che immaginerai benissimo da solo e che quindi evito di elencarti. A quel punto, forse, penserai che il concetto di giusto o sbagliato inizi a vacillare.

È il primo passo. È il primo passo per capire (ed è fondamentale questo passaggio) che non esiste un concetto di giusto o sbagliato in valore assoluto. Questo stesso concetto è un concetto creato e tramandato dagli uomini, ognuno con la sua cultura e la sua storia. Noi pensiamo che uccidere sia sbagliato, e sarà quasi impossibile cambiare idea, ma c’è chi non la pensa così. Sbaglia lui? Potremmo dire di sì, siamo certi che sbagli lui, ma lo diciamo soltanto perché nella nostra cultura uccidere è sbagliato. In una cultura che la pensasse all’opposto, quelli che sbagliano saremmo noi.

Bisogna sempre cercare di osservare le cose da angolazioni diverse, anche da quelle esattamente contrarie alle nostre. Serve a capire, a riflettere e infine ad accettare. Ma non dico che si debba accettare che qualcuno uccida, per quanto questo poi possa essere il risultato finale delle nostre riflessioni, quanto invece che si debba accettare che qualcuno pensi che sia giusto farlo. Non siamo gli unici su questa Terra e tutto fa parte di un’evoluzione, di una lotta alla sopravvivenza che ci ha portato ad essere quelli che siamo. Le persone si scandalizzano che qualcuno violenti qualcun altro, che qualcuno faccia guerre, che qualcuno si approfitti dei bambini, che qualcuno uccida altri esseri viventi per le più svariate ragioni. Sono comportamenti disgustosi, non c’è dubbio. Ma non sono comportamenti anomali, niente è anomalo se esiste. Fanno parte degli atteggiamenti insiti nell’essere umano, abbiamo prova di questo ogni giorno. E ogni giorno, ogni minuto, nel mondo animale possiamo assistere a cose di questo genere. Nessuno si interroga sul fatto che per gli animali possa non andare bene così com’è, anzi, nella maggior parte dei casi si cerca addirittura di preservare tale natura istintiva per salvaguardare gli ecosistemi. Perché se un leone ammazza un altro leone per conquistare una leonessa o un territorio va bene e se un uomo ammazza un altro uomo per conquistare una donna no, o se ammazza qualcuno per una questione di confini no? Perché l’uomo dovrebbe fare eccezione a tutto questo? Perché proprio lui, che è l’unico essere vivente sul pianeta la quale ipotetica assenza migliorerebbe di gran lunga il pianeta stesso? Perché l’uomo ha il buon senso e gli animali no? Perché l’uomo ha la ragione e gli animali no? Non mi pare proprio che sia così, visti i risultati.

La differenza sta nel fatto che la natura degli animali viene osservata, quella dell’uomo viene invece vissuta ed etichettata. Non riusciamo ad essere osservatori di noi stessi, mentre invece riusciamo ad esserlo benissimo degli altri, anche e soprattutto se della stessa razza.

Se riuscissimo, come dico spesso, ad aprire la mente e riportarla indietro verso l’origine delle cose, se riuscissimo a resettarla e ad immaginarla priva di qualsiasi condizionamento, le parole giusto e sbagliato non le conosceremmo neppure. Una cosa è, e basta. Non è giusta, non è sbagliata, è solo una cosa che sta accadendo in quel modo e in quel momento, e noi possiamo solo osservarla, capirla, ma non giudicarla.

Quando iniziamo a dividere il mondo in giusto e sbagliato, iniziamo a creare conflitto. E se c’è conflitto, non c’è accettazione. E se non c’è accettazione, non c’è felicità.

Con chi ci dobbiamo arrabbiare se succede qualcosa? A chi dare la colpa di un tale evento? Chi mettere nel mirino? Tutto ciò serve soltanto a scaricare le responsabilità, a farti sentire più leggero, ma è una leggerezza passeggera, è come ubriacarsi per dimenticare: non dimentichi per sempre, dimentichi soltanto fino a quando non ritornerai nuovamente sobrio. E poi è peggio di prima. Se invece riesci ad accettare il mondo, se riesci a togliere l’etichetta del giusto o sbagliato, allora non hai bisogno di scaricare alcuna responsabilità, non hai bisogno di ubriacarti, di sentirti temporaneamente più leggero, perché più leggero lo saresti sempre, costantemente.

È un lavoro difficile questo, non è una cosa che si fa dall’oggi al domani. Però oggi puoi cominciare a rifletterci, puoi cominciare a lavorare su te stesso, sul non colpevolizzarti per qualcosa che hai fatto in passato e che ti fa stare male ancora oggi, e puoi iniziare poi ad estendere questo pensiero anche sugli altri, a chi ha fatto cose contro di te, alle cose di tutti i giorni, a tutto il resto.

E pian piano pulirai la tua mente, la disintossicherai, letteralmente, e sarai più sereno, più saggio e anche un po’ più felice di prima.

Garantito.

Se la felicità esiste, c'è solo un modo per trovarla: cercarla.

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